Il XVIII secolo - architettura e rivoluzione


La seconda metà del Settecento e il primo ventennio dell’Ottocento sono periodi di grandi e radicali cambiamenti in vari campi del sapere. La rielaborazione di molte delle fondamentali scoperte di Galileo Galilei e di Isaac Newton nonché la diffusione del pensiero scientifico, anche fra i non addetti ai lavori, avevano prodotto in molti la convinzione che l’uomo, aiutato dai continui progressi della scienza, non sarebbe più stato soggetto alla durezza del lavoro fisico e, con la sola ragione, sarebbe stato in grado di liberarsi dalle vecchie idee, dai pregiudizi, dall’ignoranza e dalla superstizione incamminandosi verso una sicura felicità. Le tenebre in cui l’uomo si dibatteva sarebbero state rischiarate dalla luce della ragione e la scienza avrebbe finalmente potuto recare la felicità agli uomini. Da ciò il termine Illuminìsmo, che indica l’atmosfera culturale che caratterizzò il XVIII secolo, detto anche secolo dei lumi.

Pienamente figlio dello spirito del tempo è il documento più importante lasciatoci dall’Illuminismo: la monumentale Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers (Enciclopedia o dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri), diretta dal filosofo Denis Diderot e dal matematico Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert e pubblicata nell’arco di più di vent’anni a partire dal 1751. Grazie ad uno uno spiccato interesse per i procedimenti manifatturieri e i ritrovati tecnici gli autori dell’Encyclopédie superarono la tradizionale distinzione fra arti liberali e arti meccaniche, promuovendo la valorizzazione di qualunque attività creativa –non solo quella propriamente artistica– e la formazione, nel lettore, di un atteggiamento orientato alla trasformazione e al miglioramento della realtà sociale. Tale visione ottimistica era anche supportata dalla Rivoluzione Industriale –iniziata circa cinquant’anni prima in Inghilterra- che, con la diffusione di nuovi processi produttivi basati sull’utilizzo di macchine che, sfruttando le nuove scoperte, aumentarono a ritmo vertiginoso la produzione e, teoricamente, avrebbero alleviato il lavoro degli operai garantendo una migliore qualità della vita. Le macchine, contribuendo alla nascita del sistema industriale europeo, modificarono non solo i ritmi e i modi di lavoro, ma il modo stesso di vivere di una massa enorme di nuovi operai che, abbandonate le campagne, si trasferirono nelle città industriali, dove la manodopera era sempre più necessaria e richiesta, determinandone un rapido e disordinato sovraffollamento (urbanesimo).

Nella seconda metà del Settecento, la volontà di rinnovamento ideale, civile e politico dell’Illuminismo raggiunse la sua massima intensità ed estensione, generando quel clima diffuso di aspirazione alla libertà e all’eliminazione dei soprusi che avrebbe portato alla grande e drammatica rivoluzione francese del 1789. Sebbene nel resto d’Europa il movimento dei Lumi non ottenne il livello di visibilità sociale e di organizzazione che caratterizzò il gruppo francese, lo spirito dei nuovi tempi influenzò ovunque non solo gli ambienti intellettuali, ma anche quelli artistici. dando origine un nuovo modo di guardare e valutare l’arte stessa. In particolare i teorici francesi dell’Architettura fecero emergere radicali posizioni innovatrici che, partendo da una rivalutazione della tecnica esecutiva, cioè del processo pratico che traduce in forme materiali le idee dell’artista, sollevarono un’accesa polemica; tra i contributi più importanti va ricordato quello dell’abate Marc Antoine Laugier nel suo testo Essai sur l’architecture (1753).
Ricercando un sistema di regole fisse ed universali fondate sulla natura e sulla ragione Laugier intende l’architettura come corrispondenza fra struttura (mai più nascosta o camuffata), distribuzione planimetrica degli ambienti e loro funzione specifica e ne identifica il modello originario nella capanna primitiva, prodotta dall’uomo allo stato di natura e nucleo originario di ogni architettura, con i tronchi d’albero in funzione di colonne e il tetto spiovente fatto di rami, come espressione dell’architrave e del frontone. Ogni bellezza derivava dagli elementi essenziali della capanna, ogni variazione accettabile corrispondeva all’adeguamento della capanna alle esigenze contingenti mentre ogni errore proveniva dall’introduzione di elementi non necessari.

La capanna primitiva nel forntespizio della seconda edizione dell'Essai sur l'Architecture

GLI ARCHITETTI DELL'UTOPIA
Tra gli anni Settanta e Novanta del Settecento alcuni architetti, portando alle logiche conseguenze le teorie di Laugier, giunsero a un’estrema semplificazione del linguaggio architettonico, fondato su forme assolutamente nuove, derivate spesso dalla giustapposizione di forme geometriche pure(cubi, prismi, cilindri e sfere) e alla rottura radicale e definitiva con il passato barocco e rococò, tra questi Etienne-Louis Boullée (128 – 1799) e Claude-Nicolas Ledoux (1736 – 1806) i quali trassero dall’antico una lezione di chiarezza che anticipò il funzionalismo; radicalizzarono la ricerca della semplicità in grado di elaborare originali utopie estetiche che esprimevano la necessità di un rinnovamento totale dell’architettura e della città in risposta ad una società che si stava rinnovando dalle fondamenta.
In particolare Boullée affida il suo fare architettura essenzialmente alle forme geometriche semplici, esaltando in ogni occasione la perfezione della sfera, ritenendo che l’architettura sia una corretta e geniale articolazione delle masse, cioè una distribuzione di puri volumi nello spazio, legati da un insieme di precisi rapporti. Privando quasi del tutto le proprie opere di elementi decorativi, Boullée è persuaso che unico motivo decorativo debbano essere le forti e profonde ombre generate dai contrasti delle forme architettoniche: a questo proposito, infatti, egli afferma di essere l’inventore dell’architettura delle ombre e delle tenebre. Si tratta, nella quasi totalità dei casi, di progetti non realizzati, caratterizzati da temi improbabili e dotati di un forte simbolismo iconico (che cerca cioè di far rassomigliare il progetto alle cose rappresentate, le cosiddette architetture parlanti) e le cui dimensioni, pure quando volevano rispondere a scopi pratici, li ponevano fuori scala rispetto agli edifici che in ogni tempo erano stati pensati e realizzati e rispetto a ogni possibile inserimento in una qualsivoglia città. Puri sogni tra i quali, però, si inseriscono progetti affascinanti come l’ampliamento della Biblioteca Nazionale, il museo destinato a contenere le statue degli uomini famosi e il Cenotàfio di Newton che sarebbero poi stati rivalutati solo nel Novecento, in particolar modo dai Puristi (ai quali si rifaceva lo stesso Le Corbusier) e dai Razionalisti che, d’altro canto, rivendicavano una   fiducia nella ragione e nella tecnica e un impegno sociale analoghi a quelli dell’illuminismo.

Ampliamento della Biblioteca Nazionale
Il disegno di Boullée per la Sala della Biblioteca Nazionale, riferito alla seconda variante (un primo incarico gli era stato affidato attorno al 1780), pare riproporre la visione raffaellesca della Scuola d’Atene, come lo stesso architetto riconosce. Una grande volta a botte cassettonata recante alla sommità un lucernario copre un vasto ambiente rettangolare (dalle dimensioni di 300×90 piedi, pari a circa 98×29 metri) ed è separata dai quattro gradoni, dove sono conservati i libri, per mezzo di un colonnato ionico trabeato. Altri libri sono collocati dietro il colonnato. Nella veduta prospettica i lettori-studiosi indossano toghe romane, per rendere ancor più solenne e austero l’ambiente, nella cui configurazione Boullée suggerisce quella di un antico anfiteatro. Più che l’immagine della funzionalità di una grande biblioteca, la visione di Boullée è un omaggio all’universalità della cultura e all’erudizione e lì dove l’architettura dipinta di Raffaello era animata dai sapienti dell’antichità, nella sala tappezzata di libri della biblioteca parigina sono le opere dei sapienti di tutti i tempi ad abitare. I libri, addirittura, sembrano far parte dell’architettura, sono le pietre stesse su cui poggia l’intero, solenne edificio la cui razionale organizzazione e le dimensioni eccezionali sono ancora riecheggiate dalle sale di lettura della Biblioteca Sainte-Geneviève e della Biblioteca Nazionale di Francia realizzate a Parigi da Henri Labrouste rispettivamente nel 1838-1850 e nel 1860-1866.

Etienne-Louis Boullée, peogetto per l'ampliamento della Biblioteca Nazionale

Raffaello Sanzio, la scuola di Atene, 1509-1511, musei vaticani

Henri Labrouste, sala di lettura della biblioìteca Sainte Genèvieve, 1838-1850

Il Museo è una ciclopica costruzione a pianta quadrata preceduta da quattro esedre colonnate e da un porticato d’ingresso. Quattro alte colonne coclidi situate lungo gli assi diagonali lo affiancano. Esso è dotato di quattro ampie gradinate coperte da volte a botte che immettono in un immenso spazio coperto da una cupola emisferica il cui oculo sommitale fornisce il cono luminoso ruotante, nel corso del giorno, per illuminare, come in un palcoscenico, l’ampio doppio colonnato circolare sottostante con le statue degli uomini illustri. All’esterno la cupola è interamente nascosta alla vista dalle alte pareti del perimetro quadrato e da un anello colonnato di rinfianco che sembra un tamburo in attesa di essere esso stesso sormontato da un’ulteriore cupola. Il rapporto di 4:1 lega la larghezza della struttura a pianta quadrata e l’altezza complessiva dell’edificio calcolata al livello del coronamento colonnato



Il Cenotafio di Newton è costituito da un’immensa sfera cava sorretta da un terrazzamento che ha la funzione di assorbire le spinte eventuali della metà superiore e di sostenere l’emisfero inferiore. Come in un mausoleo imperiale romano, l’immane e insolito edificio è circondato da tre anelli concentrici di cipressi allineati gli uni agli altri. L’interno, occupato dal solo sarcofago commemorativo, avrebbe offerto grandiose quanto inquietanti visioni: un cielo stellato durante il giorno (per l’esistenza di aperture sulla calotta che avrebbero filtrato i raggi del sole che, nel suo moto apparente dall’alba al tramonto e in base al periodo dell’anno, avrebbe acceso o spento le varie costellazioni, come se queste stesse sorgessero o tramontassero); un effetto diurno, invece, durante la notte, quando il sarcofago, collocato sulla sommità di un basamento tronco-piramidale, sarebbe stato illuminato dalla luce emanata da un grandissimo globo a forma di sfera armillare sospeso nel centro della ciclopica cavità. In questo modo all’interno del cenotafio veniva ricreata una copia–o modello–dell’universo le cui leggi erano state rivelate agli uomini proprio da Newton, attraverso la teoria della gravitazione universale.


Etienne-Louis Boullée, Cenotafio per Isaac Newton, prospetto

Etienne-Louis Boullée, Cenotafio per Isaac Newton, sezione
 
Etienne-Louis Boullée, Cenotafio per Isaac Newton, sezione
ricostruzione del mausoleo di Augusto


L’ARCHITETTURA NEOCLASSICA
Nel Settecento l’architettura del ferro era, di fatto, allo stato sperimentale. La maggior parte della produzione architettonica avveniva ancora con sistemi tradizionali, ma nella seconda metà del secolo, vi fu una svolta stilistica notevole. In polemica con quel barocco, che aveva moltiplicato la decorazione degli edifici al limite dell’incredibile, l’architettura cercò una nuova purezza di linee e, benché la cultura artistica e letteraria fosse attraversata da numerose sollecitazioni di rinnovamento, la componente più influente fu, paradossalmente, quella classicistica con il ritorno ad un’applicazione più rigorosa dei principi architettonici classici.

Tale ritorno fu basato sia su riflessioni estetiche sia su istanze di gusto. La passione per l’Antico, che non si era mai spenta dopo il Rinascimento, divenne, grazie anche all’enorme diffusione delle stampe e dei libri che riportavano le scoperte archeologiche di quegli anni (Pompei (1748) ed Ercolano (1738) in Italia, ma anche la Grecia classica, la cui arte, fino a quel momento, era conosciuta solo attraverso il riflesso che essa aveva prodotto sull’arte romana) e dei viaggi di formazione (primo fra tutti il Grand Tour) che gli artisti e i giovani delle famiglie aristocratiche compivano nell’Europa mediterranea, la caratteristica forse più significativa e riconoscibile non solo della società artistica europea, ma anche di quella di aree geografiche distanti dal vecchio continente. Elementi di ispirazione greca e romana, infatti, ispirarono e l’architettura e l’urbanistica degli stati nordamericani dopo l’indipendenza dall’Inghilterra con l’intento di esprimere gli ideali di libertà e democrazia della giovane repubblica d’Oltreoceano

Thomnas Jefferson, Rotunda, Università della Virgina, 1817
Nacque così il Neoclassicismo, un movimento artistico, che nel rifiuto degli eccessi del Barocco e del Rococò (associati alla frivolezza, alla superficialità e alla corruzione dell’Ancien Régime) e supportato dagli sviluppi dell’Estetica, (una nuova disciplina filosofica che si interrogava sull’essenza del bello e del godimento estetico, come momento conoscitivo e fattivo dell’attività umana) intendeva recuperare gli ideali estetici e morali delle polis greche e della Roma Repubblicana per attribuirle alla Francia post-rivoluzionaria e, in seguito, all’Impero Napoleonico. Tra i caratteri di questo movimento, il cui teorico più importante fu il tedesco Johann Joachim Winckelmann, ricordiamo:
  • ·       l’imitazione dei modelli dell’arte antica: soprattutto greca, ma anche romana, etrusca ed egizia;
  • ·           la diffusione di ideali di razionalità, chiarezza, proporzione e simmetria;
  • ·           la centralità dell’Italia come fonte di ispirazione per tutti gli artisti del tempo.


Il Neoclassicismo si diffuse rapidamente in tutta Europa e si qualificò, fin dagli esordi, come uno stile internazionale di fortissima presa, in grado di coinvolgere tutti i settori della produzione artistica, dalle arti maggiori fino all’arredo e alla moda. Il nuovo gusto diede inoltre grande impulso non solo al mercato artistico, con il commercio di statue, dipinti e reperti antichi in copia, ma anche alla voga del collezionismo antiquario portando alla creazione dei primi musei moderni.
L’architettura fu il campo in cui gli ideali neoclassici poterono esprimersi in forma più compiuta e dove, accanto alla riproposizione di principi e forme dell’architettura greco-romana, ma vi fu anche una riflessione più profonda sull’intera storia dell’architettura. L’applicazione dei principi enciclopedici di razionalità e catalogazione portarono alla nascita dei concetti di tipologia e di stile. A fronte di ciò i nuovi edifici chiamati a ridisegnare la città in chiave moderna (ospedali, uffici, teatri, accademie, luoghi di ritrovo, mercati …) vennero concepiti secondo una valutazione di congruenza tra questi e le finalità architettoniche e funzionali a cui erano chiamati (regolarità, varietà, decoro e igiene) e non secondo giudizi di mera qualità estetica.

Da questo punto di vista l’architettura neoclassica produsse, in realtà, pochi capolavori. Semplificò l’eccesso di decorazione, ma lo fece producendo edifici, non realmente ispirati, ma freddamente studiati al tavolo di progettazione, come risultato di un meccanico formalismo dei principi architettonici classici. Tuttavia la sua fortuna fu notevole soprattutto in periodo napoleonico. Contribuì notevolmente a quello stile «impero» che si basava su tutti i simboli di grandezza, che Roma aveva consegnato all’immaginario collettivo, e che ben si adattavano allo spirito di esaltazione dell’impero napoleonico.

In Italia, dopo le prime anticipazioni del Vanvitelli nella Reggia di Caserta e del Piermarini, suo allievo, nel Teatro alla Scala, l’utilizzo di questo stile viene favorito dalla fiorente attività edilizia promossa dal governo austriaco nel lombardo-veneto e successivamente dai governi napoleonici tra i quali si segnalano la sistemazione del Foro Bonaparte a Milano e quelle di piazza del Popolo a Roma e di piazza del Plebiscito a Napoli.

L’architettura a Roma: il razionalismo illuminista di Valadier
Tra Settecento e Ottocento anche a Roma le vicende architettoniche risentirono fortemente degli sconvolgimenti politici. Se nella seconda metà del Settecento era parso che Roma – dove Antonio Canova era stato chiamato come curatore delle raccolte vaticane – potesse rinnovare i fasti passati l’occupazione francese (1798) con la creazione della Repubblica romana (1799) e l’annessione dello Stato della Chiesa al Regno d’Italia tra il 1809 e il 1814, crearono in città un continuo alternarsi di spinte costruttive e ristagni. In questo contesto emerse la figura di Giuseppe Valadier (1762-1839), che con grande abilità diplomatica mantenne i propri incarichi sotto i diversi governi e a cui si deve quello che è stato definito il capolavoro dell’urbanistica italiana d’età neoclassica: la sistemazione di Piazza del Popolo.
Prima della ristrutturazione di Valadier, la piazza, che costituiva il principale ingresso alla città da nord, presentava una fisionomia ben poco omogenea: monumenti preesistenti di grande fascino (al centro l’obelisco egizio collocato da Domenico Fontana per volere di Sisto V; sul lato sud le due chiese gemelle di Rainaldi; sul lato nord la Porta del Popolo con a ridosso della facciata quattrocentesca della Chiesa di Santa Maria del Popolo); spazi verdi (il colle del Pincio a est, un’area pianeggiante fino al Tevere a ovest) ed elementi di edilizia rustica, propri delle zone di passaggio tra campagna e città intorno alle porte urbane.

Nuova topografia di Roma, Giovanbattista Nolli, 1748,
particolare della zona di piazza del Popolo prima dell'interevntodel Valadier

Van Lint, piazza del Popolo, 1750, prima della sistemazione del Valadier
Il progetto di ristrutturazione, già redatto nel 1793, ma rinviato per il turbinoso succedersi delle vicende politiche venne presentato nel 1810 e reso definitivamente esecutivo nel 1816 prevedendo la realizzazione, grazie ad una serie di demolizioni, di una nuova piazza trapezioidale, con la base maggiore corrispondente alle due chiese e la base minore alla Porta del Popolo, ora inglobata dai colonnati come una sorta di arco trionfale. La piazza fu dilatata lateralmente tramite due ampi emicicli; sul fianco del Pincio si innalzò una serie di rampe a gradoni, mentre il lato semicircolare verso il fiume veniva definito da una cancellata, oltre la quale si stendeva il parco fino al Tevere. In questo modo si assicurava alla piazza un effetto di regolarità monumentale, ma anche un nuovo respiro spaziale che la legava all’ambiente naturale circostante.

Giuseppep Valadier, sistemazione di piazza del Popolo, prima versione 1794

piazza del Popolo, la sistemazione definitiva in una foto del 1890-1900

piazza del popolo, vista aerea della sistemazione attuale

Il Foro Bonaparte: le radici della città moderna
Giovanni Antonio Antolini è stato architetto, teorico e studioso dell’architettura che ha legato il proprio nome alla grandiosa ideazione del Foro Bonaparte a Milano uno dei progetti più celebri e rappresentativi di quel periodo rivoluzionario a cavallo tra il secolo dei lumi e il secolo XIX che avrebbe visto l’affermarsi della civiltà industriale e la divisione della città per gerarchie economiche e funzionali.
Il progetto è, infatti, la compiuta rappresentazione degli ideali civili rivoluzionari e in coerenza con essi prevede tutte le funzioni essenziali di una città capitale: intorno al nucleo superstite del Castello Sforzesco, sede del governo repubblicano, si sarebbe eretto un imponente colonnato dorico. Tale nucleo si sarebbe trovato al centro di un'immensa piazza circolare delimitata da porticati: un Foro al cui interno avrebbero trovato armonica collocazione tutte le principali destinazioni pubbliche: quelle economiche e quelle civili della memoria, della cultura e dello svago (sale per comizi, museo, Pantheon, terme, teatro...). Tutto il complesso sarebbe poi stato circondato da un canale circolare navigabile collegato al Naviglio e valicato da ponti. In definitiva, Foro Bonaparte si propone come il centro e il principio di una nuova città.

Giacomo Pinchetti, la città di Milano (con la sistemazione del foro Buonaparte), 1801

pianta del foro Buonaparte

il foro Buonaparte, fronte verso la campagna

il foro Buonaparte, fronte verso la città
Antolini disegna la prima versione negli ultimi mesi dell’anno 1800, completandola con un Piano Economico-Politico del Foro Bonaparte piuttosto dettagliato, ma il radicalismo del progetto ne causò il rifiuto da parte della stessa amministrazione francese, il cui apparato militare era sempre meno propenso ad abbandonare l’area del Castello. Inoltre, Napoleone, che è il fondamentale referente della proposta, dopo la pace di Lunéville orienta la sua politica in senso decisamente più moderato, imboccando la strada che porterà all’Impero. Il nuovo centro della città non verrà mai realizzato, ma l’idea di uno spazio circolare intorno al Castello ritornerà verso la fine del secolo, in forme e con modalità completamente diverse, quando verrà costruito l’emiciclo che oggi tutti conosciamo completato dalla realizzazione dell’arco della Pace.

Milano, piazza Castello con l'attuale sistemazione del foro Bonaparte

Piazza del Plebiscito
Inizialmente Piazza del Plebiscito era, e fu per secoli, solo uno spiazzo irregolare, dove si svolgevano feste popolari, fino a quando nel Seicento, si cominciò la costruzione del palazzo Reale ad opera dell’architetto reale Domenico Fontana. Una volta completato il palazzo Reale lo slargo, finalmente battezzato largo di Palazzo, divenne rapidamente il centro vitale della città, oltre che un'area pubblica di grande rilievo nella quale furono celebrate feste e giochi.

Van Wittel, veduta di Napoli con il largo si Palazzo, 1701-1706

Da Silva, real largo di Palazzo, 1770
Il Largo non aveva però una conformazione adeguata di piazza nè i diversi viceré che si susseguirono nel tempo si occuparono di predisporre un progetto urbanistico di vasto respiro, cercando invece di restituire una configurazione architettonica unitaria mediante l'allestimento di arredi come statue o fontane. Fu solo all'inizio dell'Ottocento, durante il periodo napoleonico, che la piazza cambiò completamente volto. Il nuovo re Gioacchino Murat, in sintonia con le grandi trasformazioni urbane che stavano coinvolgendo la Francia e l'Europa illuminista, volle sostituire quello slargo irregolare con una piazza geometricamente ben definita.

il progetto del foro murattiano

 Il nuovo disegno urbano era formato da un porticato colonnato semicircolare al cui centro si sarebbe aperto un edificio circolare per pubbliche adunanze, Ai due lati, raccordati con l’emiciclo, due palazzi pubblici gemelli (il Palazzo dei Ministri di Stato e il Palazzo per il Ministero degli Esteri), costruiti in asse tra loro, avrebbero determinato le cortine edilizie laterali della parte rettangolare della piazza.
Con il ristabilimento sul trono di Napoli di re Ferdinando IV, avvenuto nell'ambito della Restaurazione, i lavori per l'erezione del Foro murattiano vennero bruscamente interrotti. Re Ferdinando decise quindi di edificare sulla stessa area un Foro Ferdinandeo, con la realizzazione di una chiesa cristiana consacrata a San Francesco di Paola, come voto nei confronti di quel santo che aveva intercesso per lui affinché si restaurasse la corona borbonica. Il disegno generale della piazza e i due palazzi gemelli, ormai completati, invece, vennero conservati.

prospetto dell'emiciclo di piazza del Plebiscito

piazza del Plebiscito ai primi del Novecento
Per la realizzazione della fabbrica religiosa, venne indetto un nuovo Bando di Concorso, vinto dall'architetto svizzero Pietro Bianchi. La piazza Ferdinandea, o di San Francesco di Paola, venne solennemente inaugurata nel 1846.


vista aerea di piazza del Plebiscito

  

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